I giudici chiudono definitivamente a chiave i documenti sulla mancata zona rossa in Valseriana 

I giudici chiudono definitivamente a chiave i documenti sulla mancata zona rossa in Valseriana 

I giudici chiudono definitivamente a chiave i documenti sulla mancata zona rossa in Valseriana 



AGI – Lo Stato non deve rivelare perché decise di mandare e poi richiamare 400 militari nelle zone di Nembro e Alzano tra il 5 e l’8 marzo 2020 determinando così la mancata zona rossa nel territorio più colpito dalla pandemia. Finisce così dopo un anno e mezzo di “alterno esito di giudizi”, così definiscono i giudici il susseguirsi di pronunce di segno opposto della giustizia amministrativa, la ricerca di una spiegazione ufficiale da  parte dell’AGI su uno degli episodi più discussi nella gestione della pandemia. E a mettere il sigillo sulla pronuncia depositata oggi dal Consiglio di Stato c’è “una relazione depositata il 2 febbraio 2022 a firma del Capo della Polizia”.

“Non ci fu nessun atto del Governo”

Un documento questo che, a quanto si legge nella sentenza firmata dai giudici Luigi Maruotti e Giovanni Pescatore, ha contribuito a convincere i magistrati delle “rilevanti e apprezzabili esigenze di riservatezza” invocate dal Ministero dell’interno.  Fu dunque una decisione maturata solo in ambito militare quella di scegliere come impiegare i propri uomini e donne come lo stesso Ministero ha scritto: “Non c’è stato alcun atto governativo specifico di impiego delle forze militari nelle zone di Nembro e Alzano”.

Il Consiglio di Stato, accogliendo la tesi del governo, spiega che per contrastare il Covid “sono stati impiegati gli stessi contingenti di Forze Armate addetti all’operazione ‘Strade Sicure’” il cui utilizzo “è stato disposto in attuazione delle direttive generali di pianificazione annuale, in relazione alle quali sussiste un’esigenza di riservatezza volta a secretare le linee della programmazione strategica di impiego delle risorse umane e strumentali”.

Per i giudici, “il compito” di mandare “unità aggiuntive in determinati territori dei Comuni della Bergamasca è stato rimesso alla programmazione generale annuale e alla disciplina ordinaria, sicché la richiesta di accesso andrebbe di fatto a investire un livello di programmazione strategica di più vasta portata  e, come tale, inattingibile da un livello di acquisizione parziale”.  

“L’alterno esito dei giudizi e la peculiarità delle questioni trattate – concludono i giudici – giustificano la compensazione delle spese di lite”.

La reazione dei parenti deli morti  

“Crediamo che l’autorità giudiziaria avrebbe quantomeno dovuto spiegare perché l’operazione di contenimento del virus sia correlata con l’operazione ‘Strade Sicure’ contro la criminalità organizzata, perché a noi rimane incomprensibile – è il commento dell’avvocato Consuelo Locati in rappresentanza delle centinaia di familiaru deli morti del Covid che hanno fatto causa al Governo -. E soprattutto crediamo avrebbe dovuto spiegare perché questa correlazione sia applicabile solo ai Comuni della bergamasca e non sia stata ravvisata nel lodigiano, quando proprio i militari dell’esercito furono inviati per presidiare quei territori della zona rossa.

Certo è che negare la fruibilità a tutti i cittadini italiani di atti che hanno avuto un impatto devastante sui cittadini dei territori bergamaschi, la cosiddetta Whuan occidentale da cui il contagio si è diffuso in Italia e vieppiù probabilmente in Europa,  per una ragione che ci appare permanere comunque inconferente  rispetto alla richiesta di accesso agli atti avanzata,  ancora una volta lascia con l’amaro in bocca anche chi da due anni sta chiedendo trasparenza, verità e giustizia”

La storia del tormentato ricorso  

Il primo ‘muro’ del Ministero all’AGI si era alzato il 6 novembre del 2020. Si negavano  “gli atti inerenti l’impiego e il ritiro dei militari nelle zone dei Comuni di Nembro e Alzano” richiamandosi alle “cause di esclusione” previste dalla legge cioè “la sicurezza e l’ordine pubblico”, la “sicurezza nazionale”, “la difesa e le questioni militari”, “la conduzione dei reati e il loro perseguimento”. 

Il Tar, a cui l’AGI si era rivolta attraverso un ricorso firmato dall’avvocato Gianluca Castagnino, aveva stabilito che il ministero dovesse rendere pubblici i documenti sottolineando che l’accesso civico “è finalizzato a favorire forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.

Secondo i giudici Francesco Arzillo e Daniele Bongiovanni, rendere pubbliche le carte non avrebbe comportato nessun pericolo perché “la richiesta è stata formulata nel settembre 2020 quando la questione della ‘chiusura’ delle aree era superata da tempo”, “si tratta di un’attività di impiego di militari in un ambito toponomastico e temporale circoscritto e non si inquadra in un contesto più ampio finalizzato alle modalità di contrasto al crimine e di tutela della sicurezza pubblica, tanto che una loro divulgazione vanificherebbe la strategia individuata dalle forze di polizia”. Una tesi opposta rispetto a quella sostenuta adesso dal governo che inserisce il ‘no’ in un contesto di generale riservatezza, non riferito a questo singolo caso.  

Il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, aveva assicurato ai giudici amministrativi che dal suo punto di vista non sono atti coperti da segreto. In seguito, il Consiglio di Stato aveva sospeso la pronuncia del Tar e chiesto  chiarimenti arrivati al Ministero che hanno convinto i giudici.  



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